Senza pubblico
Portarsi a casa.
Portarsi fuori.
Portarsi a tavola.
Portarsi a letto.
Come fossero rituali antichi,
gesti che si ripetono senza chiedere il permesso.
Accudire l’invisibile. Offrirsi da bere.
Quanto pesa il peso delle tue intenzioni?
Quando ti avvicini,
ti stai caricando o ti stai liberando?
Conoscersi non per darsi un nome,
ma per restare intatti
attraversando cortili silenziosi,
dove i muri sono scritti d’affetto
e le ombre non fanno paura.
Sapersi. Nel disordine della notte.
Ridersi addosso come fa la luce alle cinque,
piangersi accanto come fa la pioggia sui vetri,
guardarsi in faccia come fanno i sogni prima di svanire.
Portarsi. Come si porta una soglia, come si porta un nome che ci ha scelti.
E poi c’è chi si porta in tasca tutte le partenze che non ha mai fatto.
Si siede accanto a sé stesso senza rumore,
si cucina un silenzio, si apparecchia la pelle.
Lascia che le cose gli parlino piano, in un’altra lingua,
che i muri si addormentino, che le ore si stendano come lenzuola pulite.
E resta. Senza pubblico.
Quanti peccati sono stati tolti al mazzo
e portati a concimare l’orizzonte?
“Il cibo trova sempre coloro che amano cucinare.” - Gusteau, Ratatouille